Nell’ultimo libro che ho recensito, Rifugi, Emmanuelle Houdart stila un affascinante catalogo dei possibili “rifugi” che ognuno di noi può trovare o costruire nella propria vita. Luoghi dove ricaricarsi, sentirsi al sicuro, essere se stessi e tanto altro.
Alla luce di questo albo, credo che al centro di Ophelia di Charlotte Gingras – che ho letto in poche ore negli ultimi, trepidanti e un filino snervanti giorni prima che si palesasse la Polpetta – ci sia la ricerca e la costruzione di rifugi, rifugi potenti e meravigliosi, di quelli che possono salvare una vita, incastonati l’uno nell’altro come bambole russe. Sarà un caso di “letture sincronizzate”, come quelle di cui parla Daniele Bergesio in questo articolo su Perfect Book?
Un rifugio è quello da cui, nella finzione narrativa, nasce il libro stesso. Ophelia, dopo l’incontro con una scrittrice, Jeanne, inizia a scrivere della sua vita nel quaderno che la donna le ha regalato, indirizzando le sue parole proprio a lei, come in una lunga serie di lettere, a volte sussurrate, altre gridate. Perchè da Jeanne si è sentita ‘vista’. E la scrittura è il primo, grande rifugio al cui interno la protagonista trova modo di osservare, riflettere, sfogare tensioni ed emozioni che altrimenti resterebbero compresse, ad esplorare l’oscurità che sente dentro di sè.
I nomi stessi sono, in un certo senso, rifugi. Sia Ophelia sia il suo nemico-amico Ulysse hanno scelto per sè nomi nuovi: un’armatura, una bandiera, un mantello nel quale avvolgersi e sentirsi più forti o più autenticamente se stessi.
E’ un rifugio l’arte: quella spinta espressiva che porta Ophelia prima a lasciare segni di sè con le tag, gli scarabocchi che dissemina nelle strade, sui muri, e poi a disegnare gigantesche figure umane.
E’ un rifugio ‘classico’ quello che Ophelia chiama l’atelier: uno spazio abbandonato, una caverna, un luogo segreto, protetto dagli sguardi esterni e dal caos quotidiano. Uno spazio che la giovane inizia a fare proprio trasformandone le pareti con enormi disegni di ragazze . Ma qualcun altro ha trovato l’atelier al suo stesso tempo: è Ulysse. Ulysse che, come Ophelia, non è (per sua fortuna, forse) l’adolescente più integrato e popolare nell’habitat scolastico. Che legge e mangia cioccolata mentre cerca – senza grande successo – di riparare un furgone scassato di nome Caboose, con il quale vorrebbe intraprendere un viaggio attraverso le Americhe, fino a Capo Horn.
L’incontro non è dei più pacifici: i due adolescenti decidono di condividere lo spazio, demarcano rigidamente i rispettivi territori e orari, per poi iniziare a contaminarsi l’uno con l’altro, ad affacciarsi l’uno sulle profondità e sulle voragini dell’altro. E questo diventa il rifugio dei rifugi: Ophelia ed Ulysse non riescono a fare a meno di mescolare i propri pensieri, le proprie paure, le proprie storie, fino a creare un’isola che appartiene solo a loro, dove vivere una vita parallela a quella di tutti i giorni a scuola, ma non per questo meno reale. Un’isola nella quale avverranno scontri, scoperte, esperienze attraverso le quali i due giovani guarderanno in faccia alcune delle loro angosce e supereranno la porta invisibile verso una versione più consapevole e libera di se stessi.
Quello di Ophelia è un coming-of-age che raggiunge il lettore come un’ondata di cruda tenerezza; quella di Gingras è una scrittura vivida che non gira la testa dall’altra parte quando si tratta di esplorare il buio e la luce di una giovane che si affaccia al desiderio, alla sessualità, alla scoperta del proprio corpo, all’amore, alla fiducia dopo aver subito degli abusi. Di una giovane che è molto di più che la somma delle cose brutte che le sono successe, che ha una mente vivace e parecchio da dire.
Ad arricchire le intense pagine di questo young adult, le illustrazioni di Daniel Sylvestre e una serie di foto dei terrain vagues che Ophelia ha contrassegnato con i suoi cuori spezzati prima di scoprire l’atelier.
Gingras, C. (2019). Ophelia. Giralangolo, EDT.
Età consigliata: dai 14 anni.