In questi giorni in cui si continua a voler semplificare un problema complesso, quello dell’immigrazione, con divieti, porti chiusi e partite di ‘braccio di ferro’, diamo un’occhiata a due titoli (per coincidenza, entrambi di origine britannica) che raccontano, da punti di vista diversi, l’esperienza di bambini che affrontano grandi difficoltà per scappare da una guerra ed approdare in un luogo più sicuro. Storie di questo tempo, che è importante vengano raccontate ai bambini di questo tempo, perché possano immaginare il bagaglio che portano con sé alcuni dei loro compagni di giochi o dei bimbi di origine straniera che incontrano ai giardinetti o al supermercato. Perché l’empatia è un bene primario da coltivare in tempi di sguaiata disumanità.
Il primo, Leyla nel mezzo, scritto ed illustrato da Sarah Garland, è edito da Lo Stampatello; l’edizione originale è del 2012, così come la traduzione italiana. È una graphic novel per bambini, nella quale le illustrazioni – vivide come in un cartone animato, intense e al contempo morbide ed espressive – sono le protagoniste principali. Leyla, una bimba paffutella dal capello movimentato, vive in un paese in guerra. Una guerra che è sempre meno sullo sfondo e invade sempre di più i giochi con gli amici, la strada per andare a scuola, la sua quotidianità condivisa con i genitori e la nonna. Una sera, all’improvviso, mamma e papà decidono che è il momento di lasciare il paese: sono in pericolo. Leyla li aiuta a preparare un bagaglio in tutta fretta, saluta con tristezza la nonna ed inizia un lungo viaggio che fa paura: prima in macchina, di notte, tra le montagne, poi su una barca con tantissime altre persone, finchè, dopo molti giorni e notti, una mattina la nostra protagonista intravede le bianche scogliere di Dover. (Nell’adattamento la storia è ambientata in Italia, probabilmente per renderne più immediata la comprensione ai bambini italiani, ma da alcuni elementi, tra cui, appunto, le bianche scogliere di Dover, è chiaro che l’ambientazione originale è british).
È un nuovo, faticoso, avventuroso inizio. Un piccolissimo appartamento, una grande città, tantissime strade da esplorare, parole e cibi sconosciuti, e la malinconia di Leyla, preoccupata per la nonna rimasta nella loro vecchia casa, ma anche per la nuova scuola che dovrà frequentare. Per fortuna, la scuola porta con sé la chiave di una nuova normalità: affiancata da una maestra di sostegno che parla la sua lingua e che condivide con lei un passato da rifugiata, la bimba inizia ad imparare la lingua del nuovo paese, si abitua ad una nuova routine all’interno di un ambiente accogliente, trova una nuova amica con cui giocare, poi altri…e inizia ad appassionarsi ad un progetto di giardinaggio, con lo scopo di fare una bellissima sorpresa al suo papà.
La seconda metà del libro scorre leggera: la storia di Leyla ha un finale aperto alla speranza. Il papà trova un lavoro e a sorpresa la nonna – anche lei scappata e sopravvissuta ad un viaggio molto rischioso – raggiunge la famiglia, che si sposta in una casa un po’ più grande, con lo spazio per un piccolo orto. I fagioli provenienti dal ‘vecchio paese’, che Leyla ha fatto crescere nel giardino della scuola, e che il papà pianterà nell’orto della nuova casetta, rappresentano simbolicamente il legame con il paese che la bambina ha dovuto abbandonare, e le radici che sta mettendo nella nuova città, dove adesso tutta la sua famiglia è al sicuro. Leyla è “nel mezzo”: con la resilienza che per fortuna accompagna molti bambini, attraversa il confine tra due mondi. Con il cuore, con la pancia è ancora un po’ di là, ma si immerge con curiosità nella nuova realtà, e probabilmente troverà il suo modo di stare in equilibrio tra le sue radici e il presente. Non è un passaggio indolore, ma la presenza di genitori e altri adulti attenti e affettuosi e di un contesto accogliente aiuta, e la naturale positività del suo carattere da cucciola indomita fa il resto.
Leyla nel mezzo è un’ottima lettura che si può proporre a bambini dai 6-7 anni in su. La voce narrante è onesta ma tenera: ci racconta una storia realistica a lieto fine, con molta attenzione ai dettagli della vita quotidiana ed alle emozioni della piccola protagonista, che coinvolge senza spaventare. Non a caso il libro è stato approvato da Amnesty International.
Con Il mio nome non è rifugiato di Kate Milner, pubblicato da Les Mots Libres in collaborazione con Emergency, ci spostiamo in uno scenario contemporaneo. L’albo, uscito in Italia a giugno 2018, ha vinto nel 2016 i V&A Museum Illustration Awards, nel Regno Unito e tra le sue pagine si snoda la storia di una migrazione per fuggire dalla guerra, raccontata con parole rassicuranti, come se fosse un’avventura, da una mamma al suo bambino. La nostra città è diventata pericolosa, spiega la mamma al piccolo protagonista, un funghetto che possiamo immaginare di 3 o 4 anni. Dovremo salutare i nostri amici, fare uno zaino, e percorrere tanta, tanta strada. Aspettare, a volte da soli e a volte con tanta altra gente, dormire in posti insoliti, ascoltare parole sconosciute. Finchè arriveremo in un posto sicuro, dove potremo restare, e presto quella lingua diventerà comprensibile.
Se le parole sono pacate e a misura di bambino, le illustrazioni, delicate e tenere ma intense, raccontano ad uno sguardo adulto la durezza, la fatica, la paura e l’incertezza di una fuga a piedi attraverso un continente, evocando le scene che ci siamo abituati a vedere attraverso i media negli anni scorsi. Il racconto è intervallato da box nei quali il piccolo lettore viene interpellato direttamente: tu che cosa metteresti nel tuo zaino? Per quanto tempo riusciresti a camminare? Qual è il cibo più strano che hai mangiato? L’avventura si conclude con l’approdo in un luogo sicuro, e si intravede un futuro nel quale il piccolo protagonista si integrerà con i suoi coetanei, senza però dimenticare la propria identità.
“Ti chiameranno Rifugiato. Ma ricorda, il tuo nome non è Rifugiato.”
Non so se sia intenzionale, ma i tratti fisici di mamma e bambino sono abbastanza neutri: madre e figlio fuggono da un luogo per raggiungerne un altro, ma potrebbero avere qualsiasi provenienza geografica.
Fuori dal contesto dei libri per l’infanzia, il concept di questo albo, rivolto a stimolare l’empatia nei bimbi più piccoli, mi ha ricordato, per alcuni versi, i (ben più angoscianti) video Most Shocking Second a Day realizzati dalla ong Save the Children nel 2014 e nel 2016 per sensibilizzare il pubblico (adulto) riguardo alla situazione dei rifugiati siriani. Li potete vedere qui e qui.
La brillante scelta dei registi, in questo caso, è stata quella di mostrare un secondo al giorno della vita di una bambina inglese, la cui quotidianità viene gradualmente stravolta dallo scoppiare di una guerra. Un meccanismo deliberatamente rivolto a scardinare quelle che Stijn Joye ha definito le “gerarchie della sofferenza globale”: i drammi che avvengono lontano da casa nostra, in sostanza, ci colpiscono meno, li percepiamo come meno angoscianti, anche per la diversa attenzione dedicata loro dai media. Vedere la tragedia dei rifugiati incarnata da una ragazzina simil-Ginny Weasley, nelle intenzioni degli ideatori dei video, dovrebbe scuotere maggiormente un pubblico europeo, aiutando lo spettatore ad immaginare come sarebbe se tutto quello che sta succedendo in Medio Oriente, e/o nei campi per rifugiati in Europa, accadesse direttamente a noi, colpendo anche i “nostri” bambini. A chiudere i video, il claim “It’s happening now. It’s happening here” (Sta succedendo adesso. Sta succedendo qui).
Garland, S. (2012). Leyla nel mezzo. Lo Stampatello
Età consigliata: dai 6 anni.
Joye, S. (2009). The hierarchy of global suffering: A critical discourse analysis of television news reporting on foreign natural disasters, in The Journal of International Communication, 15: 2, pp. 45-61.
Milner, K. (2018). Il mio nome non è Rifugiato. Les Mots Libres
Età consigliata: dai 6 anni.